Intervista di Caritas.it a don Bruno Bignami, direttore dell'ufficio nazionale per il problemi sociali e il lavoro

Senza la salute, economia dai piedi di argilla

Uno tsunami sanitario, che ridisegnerà il paesaggio sociale, dell’economia e del lavoro. Che panorami ci aspettano? Prevarranno i conflitti e le tensioni, persino violente, o c’è da aspettarsi una maggior propensione alla giustizia, alla redistribuzione, alla condivisione? Don Bruno Bignami guida l’Ufficio Cei che si occupa di questi panorami. Li vede profondamente alterati, anche se in buona parte ancora indecifrabili.
Don Bignami, l’ufficio che lei coordina riguarda i “Problemi sociali e del lavoro”. Locuzione quanto mai adatta ai tempi: se dovesse scegliere, quali problemi più rilevanti indicherebbe, tra quelli causati o esasperati dal Convid-19?
Ci sono diversi problemi, e una connessione tra problemi. Uno riguarda sicuramente il lavoro e la condizione di molte realtà lavorative che hanno chiuso, o rischiano di chiudere, a causa di difficoltà che questa crisi può anche solo aver accelerato. Il secondo elemento è di carattere sociale e per certi versi psicologico: la paura e l’angoscia sono sentimenti predominanti, legati alla pandemia ma già presenti in precedenza (basterebbe pensare al tema delle migrazioni) e facili a sfociare in rabbia e protesta. Una terza crisi è di carattere politico: il rischio è che la classe politica sia tentata di capitalizzare queste difficoltà, queste crisi e queste proteste in termini di consenso, anteponendo i voti al servizio ed eludendo le grandi questioni. Questi tre grandi temi sono all’interno di una questione ancora più ampia, che papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ indica con forza: è la crisi dell’ecologia integrale, che riguarda la nostra incapacità, oggi, a comprendere a fondo le connessioni con il contesto nel quale operiamo, per cui la crisi sociale è anche crisi ambientale. La Laudato si’ lo dice con forza: per affrontare le crisi dell’oggi, incluse quelle generate o svelate dalla pandemia, siamo obbligati a ripensare modelli di sviluppo, modelli sociali, le nostre comunità, i luoghi di educazione e di formazione.
In questo senso la pandemia può rivelarsi un’opportunità?
Non bisogna essere superficiali nel ritenere che tutto cambierà. Sicuramente la realtà è invadente, però non è automatico che l’uomo sia in grado di cogliere gli elementi di novità e di sviluppare una capacità di cambiamento e di trasformazione significativa a tal punto da far diventare la crisi un’occasione di rinascita. Questa crisi ha bisogno di essere accompagnata, io penso che questo sia il ruolo anche della Chiesa.
La crisi economica, innescata da quella sanitaria: le segnalazioni che vi arrivano dalle pastorali territoriali sono omogenee, o registrate differenze tra le diverse aree del paese?
Non c’è mai omogeneità nella lettura delle situazioni del Paese: questo accadeva prima del virus e oggi continua ad accadere. I nostri terminali regionali fanno emergere sensibilità diverse e letture diverse. Intanto, la pandemia non ha avuto lo stesso impatto in tutti i territori, e questo già è significativo: parlando con i responsabili del Nord Italia, per esempio, oggi avvertiamo tutta l’ansia e la fatica della sofferenza vissuta e la voglia di voltare pagina rispetto alla condizione di comunità fortemente colpite. D’altra parte, alcune regioni che non hanno avuto un numero così alto di morti, o di ricoverati, si trovano a fare i conti con una declinazione del dramma più sul versante sociale, lavorativo, economico. Guai a noi, e alla politica, se ci fosse una lettura uniforme del Paese. Ci sono tante sottolineature e tante sensibilità diverse, che vanno rispettate perché diventino una ricchezza per la comunità e per la stessa Chiesa.
La Chiesa teme più una recrudescenza dell’epidemia, magari dopo l’estate, o l’accentuazione delle disuguaglianze economico-sociali e la compressione dei diritti di cittadini e lavoratori che potrebbe scaturirne?
Difficile dirlo, talmente inedito è lo scenario che ci troviamo a vivere. Peraltro una recrudescenza sanitaria avrebbe come ulteriore inevitabile conseguenza l’inasprimento anche dell’altra crisi. Però, ripeto, tale e assoluta è la novità, che nessuno può avere in tasca letture e soluzioni esaurienti e soprattutto preconfezionate. Dunque è difficile immaginare che cosa accadrà in autunno, anche sul versante sociale, economico e lavorativo. Potrebbe anche succedere che le scelte che dovranno essere assunte, sia a livello nazionale che in ambito europeo, riescano in qualche modo a offrire validi ammortizzatori e ad attutire le crisi ambientali e lavorative che sono in corso. Possiamo comunque ipotizzare che il prossimo sarà sicuramente un autunno molto difficile. Quel che la Chiesa si augura, è che prevalga sempre la capacità di guardare in modo interconnesso ai due versanti: questa crisi pandemica ci ha insegnato che non esiste un modello economico che regge se non ha un valido modello sanitario alla base, capace di sostenere la vita sociale. Se ciò non accade, sono drammi: un’economia che non si cura dei sistemi sanitari si rivela un gigante dai piedi d’argilla, assolutamente fragile. Lo stiamo vedendo in diversi Paesi del mondo, anche quelli in cui si è sempre sbandierata ricchezza. Si pensi agli Stati Uniti, dove un’economia potente appare però drammaticamente colpita perché alla base vi è un modello sanitario quantomeno discutibile.
Senza entrare nel merito dei singoli provvedimenti e del dibattito politico-parlamentare, le sembra che la politica italiana abbia saputo mettere in campo misure efficaci, giuste e inclusive, per attutire gli effetti sociali della crisi? Oppure si è fatta mera riduzione assistenzialistica del danno?
Per rispondere parto da un esempio che la Chiesa italiana aveva fatto appena dopo la chiusura del paese. Allora la segreteria generale della Cei aveva evidenziato come, in vista della riapertura che prima o poi sarebbe arrivata, per quest’estate è opportuno incoraggiare le vacanze in Italia. Era per dire che ci sono due modi di aiutare le persone. Uno è fornire un’entrata a chi ne è rimasto sprovvisto, sostanzialmente dicendo «ti do i soldi che ti mancano per permetterti di andare avanti». L’altro modo è muovere la realtà: se sei un bravo ristoratore, o un bravo albergatore, io organizzo o indirizzo le dinamiche sociali per darti l’opportunità di lavorare. C’è una forma di aiuto che non fa leva sulla dignità e c’è invece una forma di sostegno che parte dal ristabilimento di quella dignità, e investe su di essa. È meglio dare l’opportunità alla gente di andare dal ristoratore e consentirgli di poter fare il suo lavoro, invece di sussidiarlo: questa è la sfida. La dignità del lavoro, peraltro, è legata alla dimensione del senso della propria vita, degli investimenti (non solo di carattere economico, ma anche affettivo e umano) fatti su di sé e sugli altri. L’aiuto è doveroso nell’emergenza, ma la tentazione dello schema assistenziale è doppiamente rischiosa, perché deprime la dignità della persona.
Ritiene insomma che la pressione dell’emergenza abbia impedito l’assunzione di misure ispirate a una visione futura di Paese?
Il rischio di rincorrere gli eventi era evidente, probabilmente è un rischio che avremmo corso tutti. È un po’ inevitabile quando ti trovi con una catastrofe di tali proporzioni, senza molto tempo e senza neanche una capacità di progettazione, che non c’era e non c’è. Quello che oggi però bisogna evitare assolutamente è continuare a dare soldi a pioggia, senza una direzione. Devo dire, peraltro, che alcuni tentativi in questa direzione mi sembra ci siano stati, o perlomeno dei suggerimenti. Per parte nostra, evidenzio e ricordo quanto sia urgente, in una fase di ripresa e di ricostruzione, supportare le energie dell’economia che vanno nella direzione della sostenibilità ambientale e sociale: quelli sono autentici investimenti sul futuro. Accanto a ulteriori aiuti che è immaginabile possano essere necessari in questi mesi, bisogna anche avere il coraggio di prendere una direzione. È il compito della politica, è una prospettiva per offrire autentica speranza al Paese.
Tendenze sociali: vede segnali di maggior condivisione nella società italiana (da parte di cittadini, imprese, istituzioni), oppure dopo il rimbalzo emotivo iniziale vede di nuovo all’opera schemi rivendicativi e corporativi, forieri di conflitto sociale?
Ho notato che le zone più colpite sul versante sanitario e le persone che hanno attraversato il dramma del coronavirus mostrano una disponibilità, una sensibilità diverse, anche a livello di riflessione, di ripensamento delle cose. Questo sicuramente lo si avverte, meno invece in chi non è stato colpito. Ovviamente la tentazione da parte di alcuni, come detto, potrebbe essere quella di utilizzare i canali della rabbia e della protesta fini a se stesse. Ma questa fase deve essere formativa, educativa. Ecco perché bisogna stare attenti a non cavalcare le paure. La gente non necessariamente è migliorata; anzi, soprattutto nei momenti di difficoltà, il rischio è che uno si chiuda ancor più su di sé e cerchi di soddisfare il suo interesse momentaneo. Per aprire a una disponibilità più grande occorre una generazione, anche sociale, politica ed ecclesiale, che accompagni i processi. Bisogna far sentire chiaramente alla gente che c’è una classe politica, che c’è qualcuno che si prende a cuore i problemi di tutti, così che nessuno si senta abbandonato. Il dramma nasce nel momento in cui una persona avverte che lasciato solo; allora possono nascere risposte inadeguate, conflittuali, di violenza.
La giustizia sociale, la carità individuale e comunitaria: come possono le diverse pastorali rafforzare la loro azione comune, per testimoniare al paese che la salvezza è solo comunitaria, collettiva?
Aldilà di questo frangente, le pastorali hanno bisogno di uscire dall’autoreferenzialità in cui normalmente lavorano per provare a pensare insieme singoli progetti e in generale il loro compito educativo e formativo nella comunità cristiana. È un’urgenza della Chiesa, soprattutto della Chiesa italiana odierna. C’è bisogno di investire su questo ed è ovvio che non possa accadere a tavolino, ma scegliendo persone che sanno lavorare in sinodalità. Le questioni oggi sul tappeto chiedono un cambio di paradigma. Mi fa sempre pensare quella frase di papa Francesco nella Laudato sii, 219, quando dice che ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie; la stessa cosa vale. parafrasandola, dicendo che ai problemi ecclesiali si risponde con reti comunitarie, cioè con la capacità di lavorare insieme, di condividere, di tessere reti, perché il territorio ha bisogno di questo.
Paolo Brivio