Pastorale sociale: il lavoro al tempo del coronavirus

Tra alti, bassi, curve e modelli: rimbocchiamoci le maniche

Tra gli effetti spaesanti di questi giorni vi è il silenzio di uffici, fabbriche e botteghe. In questo silenzio si susseguono diversi pensieri: l’intuizione del lavoro come qualcosa di più del solo sbarcare il lunario, ma come realtà che ci aiuta a realizzarci per quel che siamo e con cui, in modi diversi, mettiamo a frutto la nostra creatività e contribuiamo a costruire un pezzetto di questo mondo; la (ri)scoperta del lavoro come architettura di relazioni umane, preziose ben al di là di un prodotto o di un servizio offerto e fruito; ancora, la constatazione del lavoro come qualcosa che occupa (in tutti i sensi) tempi e spazi delle nostre giornate e la cui improvvisa assenza si fa ben sentire. Ma, tra tutti questi pensieri, è inutile nasconderlo, si annida anche la grande preoccupazione dei risvolti che tutto questo potrà avere nel nostro tessuto economico e, di riflesso, nell’economia delle nostre case: quando quegli uffici, quelle fabbriche, quelle botteghe torneranno a far “rumore”, quando saranno nuovamente “vissuti” e non saranno più solo scatole vuote, che cosa accadrà in quel momento? Quando si proverà a rimetterla in moto, cosa accadrà alla macchina che abbiamo frettolosamente accostato a bordo strada? Le preoccupazioni, oggi, sono altre. E giustamente. Ma la domanda, con i timori che la contornano, resta, pronta a riesplodere con tutta la sua forza non appena l’emergenza sanitaria si placherà.

In tanti, in questi giorni, parlano di una curva a V. È quella che dovrebbe disegnare questa crisi: una rapida picchiata e un’altrettanto rapida impennata di consumi e produzione non appena terminerà la fase critica. Non lo sappiamo. Non lo possiamo sapere. E non sappiamo neppure se sia auspicabile, perlomeno in termini così grezzi. Di certo non basta, non è sufficiente. Perché, tante altre crisi ce lo hanno insegnato, a rimanere staccati, con l’auto in panne che non ne vuol proprio saperne di ripartire, sono sempre gli ultimi, quelli che già prima facevano fatica e perdevano terreno, quelli che non hanno paracadute e sostegni di sorta. È soprattutto pensando a loro che siamo chiamati a un ulteriore scatto di collaborazione e solidarietà, come proprio la situazione che stiamo vivendo ci insegna a fare. Come capita quando vediamo una macchina a bordo strada e qualcuno che si sbraccia a chiedere aiuto. E siamo chiamati a fare una scelta. Tirare dritto. Oppure fermarci a dare una mano. E rimboccarci le maniche.